5 validi motivi (più uno) per non perdersi la mostra “Orlando Furioso: 500 anni”
Categories Fuori porta, mostreNon ci sono dubbi. La mostra sull’Orlando Furioso a Ferrara è una delle migliori mostre degli ultimi dieci anni.
Chi ama l’arte ormai ci ha fatto l’abitudine ma a volte è bene rifletterci un po’: il 90% delle opere che vediamo è completamente fuori contesto.
Fino a due secoli fa l’arte viveva, come gli uomini, di ambienti, di vicende umane, di relazioni. Veniva creata ed esposta per fare parte di qualcosa – una chiesa, un palazzo, un orfanotrofio, una piazza – e aveva un significato concreto per chi la vedeva ogni giorno.
Oggi non possiamo più ricreare quei contesti perduti, a volte fatichiamo anche a immaginarli, soffocati dalle illuminazioni sbagliate, dai cartellini e dalle uscite di sicurezza.
Ma una cosa la possiamo fare: giocare con le opere, accostarle, farle incontrare come mai avrebbero potuto nelle epoche passate. Donare loro un nuovo ciclo vitale.
La mostra “Orlando Furioso: 500 anni – Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi” compie proprio questo stupendo miracolo di fantasia.
L’intento dichiarato della mostra è quello di ricreare un’atmosfera a suon di associazioni mentali. Nessuna “storia vera”, quindi, né complicata teoria. Solo immagini, concetti, ricordi reali possibili e inventati, evocazioni in pieno stile ariostesco.
Se vi raccontassi la mostra opera per opera non potrei che fallire miseramente: non vi trasmetterei nemmeno un briciolo della magia.
E allora gioco anch’io con le immagini: ve ne propongo 5 che secondo me valgono da sole l’intera mostra. (E tra queste non ci sono né Raffaello né Michelangelo né Leonardo, che pure sono in mostra. Fate un po’ i conti.)
1. La città incantata (ovvero: la meraviglia)

Il marchese Giampietro Campana usava questa tavola come spalliera nella sua casa romana. Vi sono raffigurate le avventure di Teseo e Arianna, ma la rievocazione storica non è proprio l’intento dell’anonimo pittore, che raffigura elementi cavallereschi e mitologici accostati con estrema naturalezza.
Il castello meraviglioso, che ricorda quello della Disney ma è ancora più favola, è solo sullo sfondo di un labirinto, un naufragio, un corteggiamento e una lotta con i centauri.
2. La carta del Cantino (ovvero: la storia)

La carta fu realizzata da un anonimo cartografo portoghese per Antonio Cantino, ambasciatore di Ercole I d’Este in Portogallo, ed è uno dei primi documenti cartografici a registrare le scoperte di Colombo e Vasco de Gama.
Se vi avvicinate, potreste guardarla per ore. Oltre alle vedute di Venezia e Gerusalemme, l’anonimo cartografo inserisce anche un forte in Guinea, accerchiato da dolcissimi e nerissimi indigeni, e una incerta costa brasiliana appena scoperta, popolata soltanto da tre pappagalli.
3. La sala del Desiderio (ovvero: l’allestimento)

“Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese io canto…”
Un elmo corinzio che fissa con occhi cavi una donna, nuda e splendida, e dietro di lui, come un destino, un globo lunare. Così è riassunta l’intera poetica di Ariosto: chi si abbandona al desiderio finisce a cercare il senno sulla luna.
Per immagini comprendiamo il concetto, con una regia luministica degna di un teatro.
E pur con il loro effetto scenografico, nessuna delle opere è lì per caso.
Il globo, per esempio, si rifà a una frase di Leonardo che paragonava la luna alle “palle dorate poste nella sommità degli alti edifizi”. E se non bastasse, era il globo dell’obelisco Vaticano, considerato per secoli il contenitore dei resti di Giulio Cesare, e porta ancora i segni degli archibugi dei Lanzichenecchi inferti durante il sacco del 1527.
4. Tiziano (ovvero: la pittura)

Il “Baccanale degli Andrii”, capolavoro di Tiziano, torna a casa per la prima volta dopo 500 anni.
Fu dipinto tra il 1522 e il ’24 per il Camerino di Alfonso I d’Este, il corridoio coperto che collega il Palazzo ducale al Castello Estense.
Come il poema di Ariosto, anche il dipinto di Tiziano utilizza un soggetto antico per raccontare la vita moderna, e come il poema di Ariosto ne canta i vizi senza giudicarli, perché in fondo… chi ne ha davvero il diritto?
Sullo spartito in basso al centro c’è il verso di un canone rinascimentale: “Qui boyt et ne reboyt / ne seet qui boyre soit” (Chi beve e non ribeve, non sa cosa sia il bere).
E per chi ama la bella pittura, questo è solo l’ultimo di un’infilata di Mantegna, Piero di Cosimo, Giorgione, Raffaello, Cosmè Tura e Dosso Dossi, e una copia da una Leda perduta di Michelangelo forse di mano di Rosso Fiorentino.
5. La lettera di Machiavelli (ovvero: il gossip)

Niente mi entusiasma di più del gossip rinascimentale, lo ammetto. È una malattia.
Avere sotto gli occhi un manoscritto di Machiavelli è capace di rischiarare la mia giornata. Se poi, come in questo caso, si lamenta di essere stato dimenticato nelle citazioni iniziali del poema di Ariosto e prega il suo amico di farglielo presente, ecco, io sono felice per una settimana.
E.. Last but not least…
5+1. A Ferrara è stagione di zucche. (ovvero: i cappellacci burro e salvia)
Bisogna pur pranzare!
Che dite, vi ho convinto?
Bellissimo articolo, m’è davvero venuta voglia di prendere il primo treno per Ferrara!
Grazie mille Elena! Se vai a vedere la mostra poi fammi sapere cosa ne pensi! 🙂